sabato 1 marzo 2008

Vita e opere di Ciruzzo il re di Secondigliano


Articolo di La Repubblica sul libro "L'impero della camorra" scritto dal collega Simone Di Meo, che sarà presentato da Fnac martedì 4.

Un tale Aniello La Monica. Lui, l' ennesimo, anonimo per gli italiani ma non per i clan di camorra, governante occulto di Napoli, viene ammazzato da una sventagliata di mitra un giorno di vent' anni fa davanti a casa sua. Scena modello I soliti sospetti. Vent' anni dopo le confidenze di autorevoli fonti ai cronisti cominciano a parlare in un certo modo di un camorrista "anomalo" sin dal battesimo: Paolo Di Lauro, nome borghese al quale si sostituisce un soprannome più in carattere con l' ambiente e le bische e i casinò di cui è appassionato: Ciruzzo 'o milionario. La sua fedina penale per anni è quasi immacolata, a parte una multa per eccesso di velocità. Simone Di Meo comincia il suo racconto che fluisce libero, senza accelerazioni e senza corti circuiti, non puntando su leggende metropolitane, ma attenendosi solo ai fatti, dagli anni subito a ridosso del terremoto dell' 80. Comandano i Nuvoletta, Poggio Vallesana, a Marano, tranne il nome, ha poco di salubre. Il fiduciario della Nuova Famiglia, clan che si oppone alla Nco di Cutolo segando in due i territori dei poteri criminali in Campania, è quel La Monica. E per tentare la scalata bisogna farlo fuori. Lo capisce prima degli altri Paolo Di Lauro. Costui ha tutto per riuscire: è educato e apparentemente conciliante come un altro boss che sapeva trattare e spartire con i politici, Pasquale Galasso; ha negli occhi la crudezza e il gelo di Totò Riina. Trovano una scusa, la contabilità sbagliata, e fanno fuori il fiduciario di don Aniello Nuvoletta. Il boss naturalmente è consenziente: il segno che il clan ha rotto anche con il referente di La Monica, Zaza. è il segnale di un' intuizione. La fine dell' impero del contrabbando, l' inizio dell' era della droga. La Monica non voleva "la roba" nel suo territorio. La Monica era vecchio, andava eliminato. La scalata di Di Lauro comincia da qui. Il personaggio è anomalo e resta tale: non sa sparare, nasce come magliaro - vende corredi e giubbotti di pelle in giro per l' Italia per conto della camorra - sa star zitto come nessuno, virtù principale per chi aspira a comandare. In più, invece di impelagarsi in ogni zuffa di quartiere, si mostra disponibile e divide i guadagni con chi tenta di mettergli i bastoni tra le ruote. Il racconto scorre sotto forma di lunga confessione di un pentito di camorra a un pm della Procura antimafia. Significativo il dialogo: «A Napoli gli imprenditori veri non esistono - spiega il pentito - Gli unici imprenditori veri rimasti in Italia sono camorristi e mafiosi». E al magistrato che rintuzza a Di Lauro omicidi e droga, risponde: «è un imprenditore capace, perché quello che ha fatto lui pochi altri sarebbero in grado di ripeterlo». La frase rivela che senza mitizzazione non si ha meta-letteratura della camorra. Se di Scarface non si fosse mostrato il volto maledetto ma "epico", sporco ma coraggioso, sempre preso nelle maglie di giudizi ambigui, lasciandolo alla fine solo contro tutti (captatio benevolentiae estrema) non si sarebbe dato il "capolavoro". Così Saviano fantastica di cadaveri cinesi ammucchiati in silos, mostrando quanto sia diventato sottile il confine tra letteratura e cronaca. Ma al tempo stesso "esporta" una storia della camorra ad usum delphini che fa chiaro il concetto di una imprenditoria su larga scala, contro la vecchia idea del controllo del territorio per bande. "L' impero della camorra" di Simone Di Meo pare sia più ispirato a Joe Marrazzo che a "Gomorra", ma di lui Saviano dice: "A Di Meo non piace pontificare, né addentrarsi nella fenomenologia dei clan. Gli piacciono i fatti...". Il libro si presenterà martedì alle 18 alla Fnac (via Luca Giordano 59) con Giovanni Corona, Luigi Bobbio e Giovanni Lucianelli. - STELLA CERVASIO

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